Mediazione familiare, quand’è possibile e quando no

A tanti piace definire il mediatore come un traghettatore che accompagna la coppia nel difficile momento della separazione, aiutandola a portare in salvo il legame utile a esercitare le funzioni genitoriali in quello successivo. Tuttavia ci sono coppie non mediabili e per le quali l’intervento della mediazione familiare non è utile.

Dalla prospettiva sistemico-relazionale, simbolica e trigenerazionale sappiamo infatti che solo se ciascuno dei partner riesce ad accettare la propria parte di responsabilità nell’aver contribuito al “fallimento” del matrimonio, la crisi potrà essere affrontata e superata. E allora, pur sapendo che il contenzioso nelle aule di tribunale dovrebbe essere l’extrema ratio (perché raramente capace di salvaguardare la complessità dei legami dei soggetti coinvolti) e posto che l’adesione spontanea è la maggiore garanzia di buona riuscita, ci chiediamo: quali coppie possono accedere alla mediazione?

Occorre innanzitutto premettere che a definire la possibilità di accesso non è tanto l’intensità della crisi quanto la modalità con cui la coppia si approccia a essa. Il divorzio è infatti un evento che muove la sofferenza di chi lascia e di chi viene lasciato. È una rottura di quell’unità in cui inconsapevolmente s’incastravano i bisogni e le aspettative di ciascuno dei partner. Secondo Cigoli, “insieme ci si lega, insieme ci si separa”. Trattare la fine di un legame richiede di collegarsi alla sua nascita, alla sua storia e alle sue vicissitudini. Pertanto la sua lettura può avvenire solo attraverso la teoria delle dinamiche generazionali e di coppia. E solo alcune coppie risultano mediabili.

In particolare ci sono due tipi di legame che difficilmente si prestano alla mediazione, noti con la definizione di “legame disperante” e “legame disperato”.

Il primo è caratterizzato dal fatto che, anche a distanza di anni dalla separazione, gli ex partner continuano a combattersi, soprattutto per il possesso dei figli. La loro ragione di vita rimane la sopraffazione dell’altro, il divorzio psichico non è avvenuto e il dolore della perdita viene colmato, appunto, da questa battaglia senza fine. In tal caso la “legge” serve a formalizzare il patimento e il bisogno di giustizia. Nel legame disperante è riconoscibile la soggiacente speranza che l’altro cambi e che la sofferenza venga curata dall’esterno. Il rischio di alienazione dei figli in un contesto di questo genere è assai rilevante, perché spesso l’esclusione dal legame viene vissuta come unica possibilità di cura del dolore ancora provato.

Il secondo configura invece un rapporto ancor più patologico, in cui abuso, violenza e sfruttamento sono le dimensioni variamente emergenti. Chi subisce/collude alterna ritiro, desolazione, abbattimento, protesta e indifferenza. Il vissuto di questo legame è l’inaffidabilità, emozione certamente negativa, ma che paradossalmente permette, anche se nel dolore, di continuare ad alimentare la speranza di mantenerlo vivo. Il rischio di non riuscire più a sentirsi degni del legame può portare in casi estremi ad attaccare se stessi per salvarlo o a volersi liberare dell’altro: nel primo caso avremo il suicidio, nel secondo l’omicidio.

Abbiamo accennato poc’anzi all’importanza di una lettura (anche trigenerazionale) della storia di coppia e familiare per valutare le possibilità di una mediazione. E in un paio di casi abbiamo escluso che ce ne siano. Esistono però altre ipotesi in cui, a seconda del “percorso del legame”, essa può rappresentare una strada più o meno percorribile.

Fallimento del patto. La relazione s’interrompe, perché il patto iniziale è improntato a una logica di potere assoluto o non esistente. Esempio: se uno dei partner non ammette limitazioni, restrizioni o condizioni relativamente a se stesso, alla propria volontà o alle proprie attribuzioni oppure pensa che l’altro non conti nulla, la possibilità di mediare risulta soltanto teorica. Generalmente questo tipo di coppie arriva in mediazione unicamente per alzare la posta in gioco.

Esaurimento del compito. La relazione s’interrompe a causa della soddisfazione di un bisogno egoistico. Esempio: se uno dei partner ha la necessità di lasciare la famiglia di origine o di avere un figlio, quando l’obiettivo è raggiunto, la coppia ha esaurito il compito. In tale ipotesi l’altro ha due possibilità: accettare ed elaborare la fine del legame o sprofondare nel dolore. Nel primo caso la mediazione è possibile, nel secondo serve un altro tipo d’intervento.

Evento sconcertante. La relazione s’interrompe a causa di un evento inatteso. Esempio: se uno dei partner incontra un’altra persona della quale s’innamora o che sollecita l’inizio di un nuovo legame, la coppia va in crisi e per il partner. In tale ipotesi l’altro ha due possibilità: accettare ed elaborare la fine del legame o viverla come tradimento doloroso. Nel primo caso la mediazione è possibile, nel secondo è molto più faticosa.

Debolezza di pattuizione. La relazione s’interrompe a causa del suo carattere superficiale e consumista. Esempio: se uno dei partner è connesso a emozioni transitorie, insufficienti ad affrontare le fisiologiche crisi di coppia, la debolezza di pattuizione può trasformarsi in fallimento del patto con il rischio di disperdere la consapevolezza dei doveri e dei ruoli genitoriali (spesso dei padri rispetto a figli non voluti veramente). Anche in tale ipotesi la mediazione non è sempre facile, ma può essere un percorso comunque costruito con professionalità.

In conclusione non sembra possibile ritenere che tutte le coppie in conflitto siano mediabili. Anzi in molti casi i ripetuti tentativi di mediazione non fanno che esacerbare i contrasti, aumentando il senso di frustrazione e ingiustizia percepito. Spesso quindi è opportuno che il dolore della separazione venga affrontato in altre sedi, in cui professionalità diverse hanno ruoli e competenze più adeguati. Sluzki ha inquadrato i conflitti in due categorie: “scontri a somma zero” e “collaborazioni a somma diversa da zero”. I primi sono quelli in cui le parti presuppongono che ci siano sempre cattive intenzioni reciproche. Le seconde sono invece quelle in cui, pur in una cornice di conflitto ed eventuale sfiducia, le parti iniziano a collaborare, ricavandosi via via una chance di cooperazione. La mediazione è possibile quando, in linea generale, ci si apre alla percezione e al riconoscimento di un obiettivo condiviso, ovvero l’interesse superiore dei figli; quando dal conflitto aperto e irrisolto si giunge cioè allo stadio dell’interdipendenza e dell’integrazione. In caso contrario è professionale evitare di mediare, anche se la mediabilità del conflitto rimane la principale aspirazione di chi lavora con le coppie in fase di separazione.